martedì 16 novembre 2010

CRADLE OF FILTH - Darkly, Darkly Venus Aversa


Il respiro di un vampiro non passa inosservato…

Nome Album: Darkly, Darkly Venus Aversa
Etichetta: Peaceville
Data di uscita: 29 Ottobre 2010
Genere: Extreme Gothic Metal/Symphonic Black Metal

Introduzione:

Eccomi qui, con la promessa recensione del nuovo album dei Vampiri più famosi del metal. Infatti, in questo fervido e prolifico 2010, si ritaglia uno spazio nelle nuove uscite anche una band con cui ho avuto sempre un buon rapporto, i britannici Cradle Of Filth: pilastro del symphonic-extreme-black-gothic-metal (e via con le consuete etichettature), e della scena estrema in generale. Partiamo, innanzitutto, con un dovuto accenno sulla storia di questo gruppo, per capirne, in breve, l’evoluzione stilistica: partono nei primi anni ’90, devoti ad un black metal violento e di stampo sinfonico, e, liricamente parlando, totalmente dediti alle tematiche oscure e romantiche del vampirismo, ripreso sempre in chiave poetica e letteraria. Dopo anni di attività ed ottimi album pubblicati, assistiamo, dal 2004, ad un flop compositivo con il periodo più “gothic-oriented” di Nymphetamine e Thornography, due album troppo sgonfi di adrenalina, poveri di buone idee e, a modo loro, troppo “commerciali”. Un deciso respiro di sollievo lo ritroviamo con il penultimo e sorprendente  Godspeed On The Devil’s Thunder; ed ora, 2010 A.D., siamo dinnanzi ad una (definitiva?) conferma del loro ritrovato smalto in fase di songwriting. Già, perché Darkly Darkly Venus Aversa, è un buon album di sano gothic metal estremo, che riporta il gruppo ai fasti dell’osannatissimo Midian, o del colossale Damnation And A Day. In termini di velocità e composizione, l’album è davvero una fucilata in pieno volto, e, nonostante le idee non siano certo troppo originali o particolarmente innovative (ragazzi, vecchie glorie come Principle o Dusk non torneranno mai più), le song riescono a scorrere, con una certa fluidità, nelle orecchie dell’ascoltatore. Merito di una decisamente rinata cattiveria dalle sfumature blackeggianti e thrasheggianti, che, da tempo, non si sentiva nella musica degli inglesi. Liricamente, si tratta di un concept , come al solito ben scritto, incentrato sulla figura di Lilith: un demone femminile associato alla tempesta, alla morte e alla disgrazia. Sgombriamo subito il campo dalle perplessità: i fans di mezzo mondo saranno rimasti inorriditi di fronte all’uscita (precedente all’album) del singolo Forgive Me Father, (unico) brano decisamente discutibile all’interno del disco, che ha fatto subito tornare alla mente il falsissimo passo che porta l’ingombrante nome di Thornography. Ma non allarmatevi: infatti, si tratta dell’unico fastidioso neo, in un’opera di tutto rispetto ed oggettivamente di indubbia qualità.  


Track By Track:

Tiriamo già un sospiro di sollievo e di conforto, accompagnato da un pensiero fisso (“finalmente ci siamo”), all’ascolto della prima traccia del disco: “The Cult Of Venus Aversa”. Inizia con un’introduzione sinfonica ed atmosferica, recitata dall’onnipresente Sarah (da anni nelle fila della band). Nemmeno il tempo di pensare, e ci viene sparato in pieno volto un superbo attacco di blast-beats senza controllo. La song si sussegue tra ottimi riff black e alcuni più thrasheggianti, su un tappeto sinfonico mai troppo invadente, ed intermezzi orchestrali. Uno dei migliori brani del disco. Ancora decisamente stravolti per la cattiveria con cui si ripropone la band, si prosegue con “One Foul Step From The Abyss”. Dopo un intro di piano e coro (mi ricorda i primi album), gli ingredienti non cambiano, ed è ancora un susseguirsi di terremoti sonici, attraverso riff devastanti e precisi. “The Nun With The Astral Habit” non risparmia le orecchie dell’ascoltatore: inizia sparata a mille, su un riff di chitarra monocorde poco convincente, ma il seguito è decisamente azzeccato. La strofa viaggia su un riff di matrice death metal, il bridge rallenta per dare spazio ad un atmosferico intervento pianistico, ed il resto è un abuso di potere di blast-beats e riff spaccaossa. Da segnalare gli ispirati interventi orchestrali, che rendono la canzone oscura ed affascinante. L’inferno sonoro prosegue con “Church Of The Sacred Heart”, canzone che sfiora i 4 minuti, dove, ancora una volta, è un massacro. Proprio quando l’orecchio inizia a stancarsi di così tanto isterismo, arriva una manciata di riff  rallentati e più ragionati. Le coordinate del brano continuano, comunque, attraverso martellate di freschissimo death-black metal. Ed eccoci arrivati ad un altro dei migliori brani del disco: “The Persecution Song”. Proprio dove i Cradle avevano fallito un lustro fa, con quella, poco gradita, svolta gothicheggiante di Nymphetamine, riprovano a calcare il terreno. Il brano è sbalorditivo nel suo incedere. Lo stampo del brano è di ottimo gothic metal, quindi i riff si fanno più lenti ed atmosferici, almeno fino a poco più di metà brano, dove ricompaiono, tutt’altro che timidamente, blast beats e tirate di velocità esaltanti al punto giusto. Il brano, dopo aver ripreso il riff gothic iniziale, si chiude con uno dei brevi interventi atmosferico-orchestrali, tanto cari ai vampiri inglesi. Sicuramente un ottimo brano, che spezza la intravista monotonia dei pezzi iniziali. E’ il turno di “Decieving Eyes” e, dopo un attacco thrash, torniamo ai consueti binari di cui abbiamo già parlato. La canzone è abbastanza interessante, se non altro per i numerosi riff che si susseguono in un turbinio di accelerazioni e decelerazioni, interventi ballad-pianistici, e orchestrazioni ben arrangiate, come sempre mai troppo in evidenza. Il brano, in definitiva, risulta meno brutale e più vario rispetto ai primi pezzi. La batteria torna a farsi notare alla grande nella successiva “Lilith Immaculate”, un buon pezzo dalle consuete atmosfere horror-black sinfonico che infestano l’album. A stonare leggermente, a mio parere, è la scelta di inserire un bridge particolarmente arioso e melodico, che mal si sposa con quanto finora sentito. Ma è apprezzabile, ad ogni modo, il tentativo di inserire qualche elemento in più nella loro musica. Il brano rallenta nella parte centrale, con un bel break di stampo sinfonico, per poi riprendere il riff brutale iniziale. La successiva “The Spawn Of Love And War” si lascia apprezzare per un impianto iniziale rivolto maggiormente al thrash metal, anche se, nel suo lungo susseguirsi, non mancano le consuete parti più orchestrali e rallentamenti di stampo gothic (le cui teatralità ed oscurità sono sempre assicurate) alternati a riff più assassini. Tuttavia, a mio avviso, è un brano abbastanza trascurabile. In altre parole, l’impatto primordiale dell’album inizia a non essere più così graffiante. “Harlot On a Pedestal”, grazie alle sue oscure melodie, riporta alla mente alcuni vecchi capolavori della band, e tra stacchi thrash e pezzi più gothicheggianti, risulta essere un brano di notevole fattura, sicuramente più apprezzabile rispetto al precedente. Ed ecco la canzone “x”, quell’insopportabile “Forgive Me Father (I Have Sinned)”, che poco c’entra con la struttura portante dell’album, e richiama alla mente il peggio della band, quel tanto (giustamente) discusso Thornography. I ritmi sono decisamente più lenti rispetto al resto dell’album, e da questo punto di vista non è un male, vista la pesantezza sonora del disco. Tuttavia la song non riesce a brillare e (con annesso videoclip) darebbe credito a chi ha additato i COF di essersi commercializzati e ridicolizzati negli ultimi anni. Per fortuna, comunque, come già detto, si tratta di un episodio isolato. Chiude l’album la song più lunga dell’album (7 minuti e 16), “Beyond Eleventh Hour”, che, dopo un intro recitato da Sarah, si sussegue attraverso i soliti ingredienti lungo la sua durata, senza aggiungere altro a questa buonissima nuova uscita targata Cradle Of Filth.


Considerazioni Tecniche e Conclusive:

Confesso che ho trovato qualche difficoltà a descrivere queste 11 canzoni. Ciò è dovuto al fatto che la musica dei Cradle (come quella di molte band nel panorama estremo) non segue, nelle strutture dei brani, schemi precisi. La classica forma-canzone, nella maggior parte dei casi, non esiste. Pertanto i riff ed i cambi di atmosfera sono davvero molti, ed è stato difficile mettere su carta ciò che questa musica trasmette. Detto questo, possiamo dire che i COF sono un gruppo, finalmente, rinato, che dimostra ancora di saper scrivere musica intelligente e, elemento non meno importante, che sappia essere graffiante, malvagia e dannatamente cattiva. Dani non è più certo quello di una volta dietro al microfono, ma le sue interpretazioni ed il suo scream-growl sono ancora di buon gusto ed indispensabili per la musica orrorifica del combo inglese. Tecnicamente, mi sento di segnalare lo sconosciuto batterista Martin Skaroupka, un’autentica macchina da guerra, che, con i sui blast beats precisi e potenti, con i suoi passaggi ricchi e, in alcuni albiti, anche particolarmente tecnici, è, a mio avviso, il miglior batterista che il gruppo abbia mai avuto: essenziale per questo disco, così come lo è stato per l’altrettanto riuscito Godspeed. Per il resto, la band compie il suo preciso lavoro, senza spiccare per doti eccessivamente particolari. Le parti orchestrali, inoltre, sono perfette nel loro donare uno spessore in più ai brani, ma, come già detto, non coprono gli altri strumenti. Le chitarre, infatti, sono molto presenti, e, pertanto, le orchestrazioni fungono da un perfetto e comunque essenziale contorno alla carica malvagia della musica di questo album. La produzione, a partire da quello spartiacque che era Nymphetamine, è oggettivamente migliorata, e,  da allora è pomposa, brillante e rende giustizia ad ogni suono. Che altro dire, sembra che tutto sia perfetto. Tuttavia, l’unico grande difetto di questo album è il fatto che le canzoni riescano si a scorrere e a lasciarsi ascoltare, senza però negare che certe soluzioni siano parecchio simili tra loro. Pertanto, non c’è un ritornello o un riff che ci permetta di distinguerle perfettamente le une dalle altre, e questo, a lungo andare, può provocare una sensazione di noia nell’ascoltatore. Per fortuna le song sono comunque ben bilanciate e studiate, e riescono a limitare gli sbadigli. Due parole sulla copertina: l’immagine è molto carina, oscura ed evocativa. Non è certo un capolavoro, ma ben calza con l’atmosfera e le tematiche del disco. Fans del nuovo corso, ma anche del vecchio corso, gustatevi quindi questa nuova inebriante fatica dei britannici, o, almeno, dategli un ascolto, e capirete che i Cradle hanno ancora molto da dire, sperando non ricadano in qualche nuova scelta poco felice. Tremate, i Vampiri inglesi sono tornati.


Tracklist:

01. The Cult Of Venus Aversa
02. One Foul Step From The Abyss
03. The Nun With The Astral Habit
04. Retreat Of The Sacred Heart
05. The Persecution Song
06. Deceiving Eyes
07. Lilith Immaculate
08. The Spawn Of Love And War
09. Harlot On A Pedestal
10. Forgive Me Father (I Have Sinned)
11. Beyond The Eleventh Hour


Voto: 8/10

2 commenti:

  1. Direi una cosa in più: The Persecution Song mi ha riportato a Midian :-)
    Meno male che hai notato anche tu lo stile Damnation, pensavo di essere l'unico :-)
    Grande vecchio!

    E.

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  2. Grazie per averla letta e per il commento. ;) Comunque si, ho sentito qualche richiamo a Damnation, così come in Godspeed :)

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